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Gli U2 si fanno in quattro. Esce l’album “Songs of Surrender”

Un disco per ogni membro: in tutto, 40 capolavori riscritti in tono intimo. Corri a perdifiato per quasi mezzo secolo, finché il mondo attorno si ferma e ti costringe in una stanza. Nel tempo sospeso, apri la cassapanca […]

(DI STEFANO MANNUCCI – Il Fatto Quotidiano) – Corri a perdifiato per quasi mezzo secolo, finché il mondo attorno si ferma e ti costringe in una stanza. Nel tempo sospeso, apri la cassapanca e rifletti su quando da ragazzo avevi la rabbia ma non la voce giusta, e le corde della chitarra si spezzavano sulle dita sanguinanti. Ora affondi le mani nei tuoi tesori, le canzoni le foto i ricordi i biglietti. Puoi rimboccarti le maniche e ridare senso al passato e al presente, stringendo la mano alla tua identità di adolescente, di uomo, di matura superstar. Reinventando radicalmente il repertorio, le cose preziose che hai saputo immaginare su un palco o dentro uno studio. A questo è servita la pandemia agli U2: due anni spesi con le finestre chiuse, e dentro soffiava il vento sabbioso del ripensamento. Per ricordarsi di essere (stati) la più grande rock band degli ultimi decenni e fare il punto su dove andare domani, evitando che ogni nuova mossa suoni come un glorioso requiem.

Così, il 17 marzo, giorno di San Patrizio, arriverà il frutto di questo viaggio di riscoperta: Songs of Surrender, quattro album non esattamente antologici, semmai l’auto-riscrittura filologica di quaranta classici degli U2, con nuove esecuzioni e arrangiamenti asciugati all’osso per mettere a nudo il cuore pulsante di ogni brano, suonandolo e cantandolo come davanti a un fuoco o nella sezione acustica di un concerto. Un esercizio spirituale il cui metodo è spogliare di ogni elemento superfluo l’invenzione e il fine è dare una veste nuova – quasi trasparente – al senso della propria vocazione artistica.

Il quadri-album (ciascuno “intitolato” a un diverso membro del gruppo, quasi fossero playlist personali) ha visto come playmaker e produttore principale The Edge, che spiega: “Quello che è iniziato come un esperimento, mentre molte delle nostre canzoni si vestivano di nuove interpretazioni, si è velocemente trasformato in una personale ossessione. L’intimità prendeva il posto dell’urgenza del post-punk. Nuovi ritmi, nuove tonalità e in alcuni casi sono arrivati nuovi accordi e nuovi testi. È venuto fuori che una grande canzone è qualcosa di indistruttibile”. Il chitarrista, coadiuvato da Bob Ezrin (ma anche gli amici Brian Eno, Daniel Lanois e il violoncellista Stjepan Hauser hanno offerto contributi) ha coinvolto soprattutto Bono, che in queste inedite versioni “canta i brani come se te li sussurrasse in un orecchio”, spesso rivisitandone i versi, aggiornando quel che era inquietudine da scavezzacolli in esperienza e pacatezza da sessantenni.

Ne vien fuori una tavolozza di sfumature che intriga, e magari spiazzerà gli ultrafan, perché l’ascolto di Surrender è su due piani: quello che esce dalle casse è lo strip emotivo del 2023, ma nel cuore e nel cervello risuonano gli originali, spendibilmente nevrotici, poderosamente spinti verso liturgie a centomila watt. Surrender invece è un mormorio unplugged, l’accettazione della vita arrivata in vista del crepuscolo, ma non il rinnegare la propria opera (come invece sta facendo Roger Waters con la reincisione di The dark side of the moon in cui taglia via gli altri Pink Floyd). Non casualmente, la scaletta del quadri-album gioca con i numeri: il primo brano è One, rallentato e immerso nella penombra; l’ultimo 40, l’invocazione che chiude gli show. Edge puntella i suoni con un pianoforte minimalista e mai cede alla tentazione della sua chitarra elettrica dagli echi infiniti; c’è qualche sobrio intervento del basso di Adam Clayton, rare percussioni (non la batteria) di Larry Mullen. Larry, il malato con il corpo da portare nell’officina dei chirurghi, che mancherà nella residency autunnale a Las Vegas, quando sarà sostituito da Bram Van Der Berg (drummer dei Krezip) nelle serate celebrative per Achtung Baby.

Il 2024 sarà probabilmente l’anno di un nuovo disco inedito (Bono giura che sarà “irragionevole, casinaro e pieno di chitarre”, dunque rock), mentre oggi Surrender serve da ideale compendio dell’omonima autobiografia del cantante: anzi, in una prima fase il progetto era far corrispondere i 40 capitoli del libro alle canzoni selezionate per l’album, ma alla fine i punti di contatto sono solo 28. I due leader della band si sono divisi, more solito, ruoli e compiti: The Edge è il motore musicale, Bono il fabbricante di parole, a volte messo sotto scacco dal suo stesso istrionismo politico, come nell’intemerata a Kiev (Walk on, originariamente dedicata ad Aung San Suu Kyi, è stata riscritta in sostegno al “comico” Zelensky). Edge e Bono sono anche i protagonisti di A sort of Homecoming, il documentario dublinese (su Disney+ dal 17.03) girato dal premio Oscar Morgan Neville, che vede i due rocker affiancati da David Letterman sui percorsi odissiaci delle radici. A caccia di quel che sono stati quando l’innocenza non si arrendeva al sospetto di un grande avvenire dietro le spalle.

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