Ci sono i numeri, quelli degli sbarchi innanzitutto, poi quelli dell’accoglienza, dei rimpatri, delle domande d’asilo accolte e respinte. A partire da questi numeri parliamo di immigrazione, si fa propaganda e si individuano soluzioni, compresa la decisione di riattivare le cosiddette riammissioni informali operate nel 2020 dall’Italia sul confine sloveno. Nonostante l’ordinanza di un tribunale ne avesse imposto la sospensione e lo stesso Viminale abbia dovuto riconoscerne l’illegittimità, il nuovo capo degli Interni Matteo Piantedosi le dichiara legittime: “Uno strumento che è doveroso riattivare e rafforzare”. E tuttavia numeri e norme non bastano a chiarire, non senza le voci e le testimonianze dirette che continuano a rimanere sullo sfondo del dibattito, quasi fosse materiale per cultori. Nasce anche da qui l’eccezionalità di “Trieste è bella di notte“, documentario che sarà presentato al Trieste Film Festival il prossimo 22 gennaio e dal giorno seguente arriverà nelle sale, prodotto da ZaLab Film e Vulcano per la regia di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre. Perché affida la ricostruzione dei respingimenti della polizia italiana a chi li ha subiti e permette di vedere in cosa si traducono e chiedere a noi stessi se siano umanamente accettabili e compatibili con i valori che ci appartengono.
Prende alla sprovvista sentir dire a un migrante “l’Europa sospenda del tutto il diritto d’asilo“, soprattutto se a parlare è chi ha viaggiato e patito per raggiungere i nostri confini. Guardando il film ci si rende conto che si tratta di un’affermazione disperata e tuttavia coerente con il resto delle testimonianze di chi era arrivato in Italia e in poche ore ha visto violati i propri diritti, a partire da quello fondamentale di chiedere asilo, derubati i pochi averi, torturata e spogliata la sua persona, finanche delle scarpe. Tanto da pensare che era meglio morire a casa propria piuttosto di affrontare il terrore, le torture e le privazioni subite. A parlare sono alcuni dei 1.300 migranti respinti dall’Italia, riammessi in Slovenia, poi in Croazia e infine picchiati e spinti in Bosnia, cioè fuori dall’Europa. Dove era appena bruciato il campo di Lipa e più di 1.500 migranti già sopravvivevano all’addiaccio e dove non rimane che provare un’altra volta il gioco – “The game”, lo chiamano. Chi ce l’ha fatta, spesso dopo numerosi tentativi, non dimentica gli altri: “Conosco ragazzi che lungo la Rotta balcanica sono stati presi e respinti più di 50 volte, e chi ha smesso di provarci e rimane lì”, raccontano i protagonisti nelle interviste realizzate nel Centro di accoglienza Casa Malala che si affaccia sulla Caserma della Polizia di Frontiera al valico di Fernetti a Trieste.
Raccolte grazie alla collaborazione della rete RiVolti ai Balcani e del Consorzio italiano di solidarietà (ICS) di Trieste, le testimonianze di chi è in Italia si alternano a quelle di un gruppo di migranti pakistani e afghani, accampati in un casale abbandonato di Bihac, in Bosnia. Confessano speranze e paure alla vigilia del viaggio per raggiungere Fernetti, calvario che alcuni già conoscono. “Abbiamo girato al di qua e al di là del confine, con chi ha già vissuto e con chi si appresta a vivere l’esperienza della rovina, con chi ha sperimentato e con chi si appresta a sperimentare il gioco della roulette e il gioco del rifiuto, attratti dalla necessità di ascoltare una storia corale e soggettiva rispetto all’oggettività delle scelte politiche”, raccontano i registi di un film “sul confine dell’instabilità e della confusione tra sicurezza e diritto; dove la competizione tra i governi europei per ridurre i numeri spinge le autorità a inventare nuove procedure, sfidando i limiti costituzionali e creando quindi tensioni tra i diversi poteri dello Stato”. Il governo di Giorgia Meloni ha appena deciso di riattivare i respingimenti sul confine sloveno, rivendicando l’efficacia dell’accordo bilaterale siglato nel 1996 tra Italia e Slovenia che ammette le riammissioni informali di chi è intercettato entro le 26 ore dal suo ingresso o entro i 10 chilometri dalla frontiera. “Serve mantenere e rilanciare le riammissioni, anche con il supporto di alcune tecnologie. Per noi è pienamente legittimo, è uno degli obiettivi da perseguire”, ha detto Piantedosi il 14 gennaio proprio a Trieste.
L’attuale posizione del governo contraddice innanzitutto ciò che il Viminale aveva detto rispondendo all’interrogazione di Riccardo Magi alla Camera nell’ottobre 2021. Il ministero, guidato da Luciana Lamorgese dal settembre 2019 fino all’ottobre scorso, aveva riconosciuto che in presenza della manifestazione della volontà del cittadino straniero di chiedere asilo “non si da luogo alla riammissione”. “Un’espressione in linguaggio burocratico che riconosceva, a denti stretti, l’illegalità delle riammissioni dei richiedenti asilo avvenute in precedenza sulla frontiera italo-slovena”, scrive l’ICS di Trieste a commento delle ultime dichiarazioni di Piantedosi. Ma c’è dell’altro. Come è ricordato anche nel film di Segre e colleghi, alcune organizzazioni umanitarie erano riuscite a mettersi in contatto con uno dei respinti. Il suo ricorso era stato accolto dal Tribunale di Roma che aveva dichiarato l’illegittimità delle cosiddette “riammissioni informali” (ordinanza del 18 gennaio 2021). Nel documentario, la titolare di quella decisione, la giudice Silvia Albano, spiega che l’accordo italo-sloveno “non è mai stato ratificato dal Parlamento (art. 80 della Costituzione) e in quanto tale non può derogare a norme di legge interne e in nessun caso potrebbe derogare a norme sovranazionali”. Cosa dicono tali norme? Indipendentemente dalla richiesta d’asilo, secondo la legge “non si può espellere una persona dallo stato italiano senza un provvedimento individuale e impugnabile davanti a un’autorità giudiziaria”. Inoltre, “lo straniero che entra nel territorio italiano e manifesta la volontà di chiedere protezione ha il diritto fondamentale di presentare tale domanda; non possono essere effettuati respingimenti collettivi perché ogni situazione deve essere valutata singolarmente, perché se uno stato espelle qualcuno deve verificare che questo qualcuno non vada incontro a pratiche disumane o degradanti o addirittura alla morte. Questi sono doveri dello Stato”.
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